
Reza Pahlavi scià di Persia
Reza Pahlavi Geopolitica
Reza Pahlavi, erede della dinastia Pahlavi, torna al centro del dibattito politico internazionale con dichiarazioni che invocano una transizione democratica per l’Iran. Mentre l’opposizione interna ed esterna al regime islamico guadagna visibilità, la storia della caduta della monarchia persiana e il ruolo delle potenze occidentali meritano di essere ripercorsi per comprendere gli equilibri attuali.
Nel gennaio 1979, nel pieno della crisi iraniana, i leader di Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Germania Ovest si riunirono a Guadalupa per discutere il destino dello Scià Mohammad Reza Pahlavi. Convinti che la sua permanenza al potere fosse ormai insostenibile, i governi occidentali decisero di non sostenerlo più, aprendo la strada alla Rivoluzione Islamica. L’influenza della Francia di Valéry Giscard d’Estaing fu determinante nel facilitare il ritorno dall’esilio dell’Ayatollah Ruhollah Khomeini, che divenne il leader indiscusso del nuovo ordine iraniano. La Francia, che aveva ospitato Khomeini a Neauphle-le-Château, fornì al religioso una piattaforma per diffondere il suo messaggio rivoluzionario, contribuendo in modo decisivo alla delegittimazione dello Scià agli occhi dell’opinione pubblica iraniana e internazionale.
Il 16 gennaio 1979, lo Scià lasciò l’Iran, dando avvio a una fase di profonda trasformazione politica. Khomeini tornò a Teheran il 1° febbraio e in pochi mesi consolidò il potere attraverso un referendum che sancì la nascita della Repubblica Islamica. L’opposizione interna fu rapidamente eliminata, compresi i gruppi laici, i comunisti e persino gli islamisti moderati. L’Occidente, inizialmente convinto di poter controllare la transizione, si trovò presto di fronte a una realtà inaspettata. La crisi degli ostaggi nell’ambasciata americana a Teheran nel novembre 1979 suggellò la rottura definitiva tra Iran e Stati Uniti, trasformando il paese in un attore ostile agli interessi occidentali.
Nel contesto della Guerra Fredda, il crollo della dinastia Pahlavi rappresentò un problema strategico per l’Occidente, impegnato a impedire che l’Iran finisse sotto l’influenza sovietica. Gli Stati Uniti risposero sostenendo Saddam Hussein nella guerra Iran-Iraq (1980-1988), sperando di arginare l’espansionismo rivoluzionario di Teheran. Ma questa strategia si rivelò fallimentare, rafforzando ulteriormente la retorica anti-occidentale del regime iraniano e alimentando le tensioni regionali.
Oggi, Reza Pahlavi si propone come una figura di riferimento per l’opposizione iraniana, sostenendo la necessità di un Iran laico e moderno. Le sue prese di posizione sottolineano il crescente malcontento nei confronti del regime, amplificato dalle proteste popolari degli ultimi anni. Tuttavia, il suo ruolo rimane incerto: sebbene goda di sostegno nella diaspora iraniana, l’opposizione al regime di Teheran è frammentata e la repressione rende difficile ogni tentativo di cambiamento.
La caduta dello Scià e l’ascesa della Repubblica Islamica furono il risultato di scelte strategiche occidentali che non tennero conto delle conseguenze a lungo termine. La speranza degli Stati Uniti di vincolare il nuovo regime iraniano si rivelò illusoria, così come l’idea di poterlo influenzare. Oggi, Reza Pahlavi rappresenta un’alternativa che tenta di conciliare il passato monarchico con le aspirazioni democratiche della nuova generazione iraniana. Resta da vedere se il suo movimento potrà incidere sul futuro del paese o se l’Iran continuerà a essere dominato dalle sue contraddizioni geopolitiche e ideologiche.